Per Alfieri (1980)

Binni: «È il testo di una lettera-discorso inviata ad alcuni amici torinesi (Luigi Firpo, presidente del Centro Nazionale di Studi Alfieriani, Piero Ferrero, presidente del Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, e vari studiosi dell’Alfieri)», pubblicata su «La Rassegna della letteratura italiana», a. 85°, s. VII, n. 1-2, gennaio-agosto 1981, pp. 56-61; poi in Studi alfieriani (1995).

PER ALFIERI

Roma, 7 novembre ’80

Cari amici, nell’impossibilità di partecipare (come speravo) al vostro convegno alfieriano e di assistere alla rappresentazione del Saul da parte di Renzo Giovampietro (già legato profondamente ad Alfieri da un’ottima rappresentazione dell’Agamennone e cresciuto nella sua passione alfieriana – e leopardiana – grazie anche agli stimoli piú vivi della critica fra cui quelli dei miei studi alfieriani e leopardiani), desidero almeno di essere presente fra voi con questo breve scritto che, se sviluppato e compiuto, avrei letto a Torino con il titolo La visione tragica e il teatro di Vittorio Alfieri. Questo che vi invio non è che un abbozzo e un lacerto di quanto intendevo scrivere come ripresa e approfondimento del mio lungo esercizio storico-critico sull’Alfieri (l’autore a me piú congeniale, dopo il grandissimo Leopardi) segnato da vari libri: a cominciare da quella Vita interiore dell’Alfieri, del ’42, ma scritta nel ’40, durante la guerra, cui partecipai forzatamente, e la mia militanza antifascista e antinazista prima clandestina poi aperta, di cui lo stesso libro era sin troppo scopertamente un riflesso, se rilevava tutte le punte alfieriane piú brucianti e sollecitanti in quel tempo doloroso e fervido di speranze («non si potendo dir patria là dove non ci è libertà») e se terminava con i versi (autoritratto e messaggio perenne di Alfieri): «Uom, di sensi, e di cor, libero nato, / fa di sé tosto indubital mostra. / [...] Né visto è mai dei Dominanti a lato».

Con cordiali saluti ed auguri.

Walter Binni

Non stupisce che in un’epoca insieme tetra e “carnevalesca” (nel senso piú sciocco della nota formula di Bachtin) del basso impero del tardo capitalismo e della tormentata crescita di una diversa società, fra tante feste e celebrazioni delle corti e degli intellettuali di corte, creatori del consenso al potere e alle classi egemoni, nel tripudio delle mode e dei metodi effimeri, la ricomparsa improvvisa del grande Alfieri sulle scene (essa stessa segno non univoco di una sua vera e compresa “presenza”) sia stata annunciata dai giornali come «inaspettata», «straordinaria» e persino «curiosa», tra curiosità divertita, subalternità ad una possibile nuova manifestazione di moda, scetticismo dell’anticonformismo e del dissenso, dell’irriducibile avversario di ogni corte, a lungo dimenticato dalla rappresentazione teatrale (dopo ben meritorie, ma ormai lontane prestazioni sceniche – Costa, Giovampietro, Visconti, Gassman – e spesso, viceversa, umilianti riduzioni del suo linguaggio pregnante in versioni prosastiche e prosaiche) e (malgrado la tenace fedeltà della critica, non sostenuta però dal necessario alimento della rappresentazione teatrale) considerato irrimediabilmente perduto e lontano nell’opinio communis anche a causa dell’educazione scolastica, rimasta a miti retorici e nazionalistici, o a quella idealistica “lettura lirica” delle sue tragedie, del tutto fuorviante rispetto alla vera grandezza del massimo drammaturgo della nostra tradizione.

Mentre contro Alfieri convergono lo snobismo provinciale che lo trova ben poco “europeo”, la grande fortuna teatrale di Goldoni (prima a livello realistico-populistico, poi nelle misure del giuoco mimico e delle “inquietudini” contemporanee) assurdamente opposto manicheisticamente ad Alfieri, lo stanco riflesso di certo rifiuto della contestazione giovanile che trovava pregiudizialmente Alfieri reazionario e chiuso nella necropoli del passato, anche in relazione a una cattiva presentazione scolastica e a certe decurtazioni brutali di una critica sociologica, priva del senso del valore poetico o persino riducente Alfieri a «un caso di ossianismo piemontese».

Sicché questi non appaiono tempi propizi (speriamo che non sia cosí) ad una ripresa di quella fortuna alfieriana che a lungo fu invece persino popolare e “diffusa”, ai tempi delle grandi rappresentazioni di Gustavo Modena, di Tommaso Salvini, di Adelaide Ristori. E proprio (non per captare e risvegliare l’attenzione dei nostri snob provinciali, ma per indicare approcci autentici ad Alfieri di grandi pubblici o di grandi intellettuali dell’Ottocento “europeo”) a proposito della celebre rappresentazione, a Parigi nel 1855, della Mirra da parte della Ristori, vorrei ricordare (in appoggio all’enorme successo e alla comprensione – proprio mercè la rappresentazione teatrale – degli stessi cori dell’Atto IV, tanto discussi dalla critica, come un eccezionale momento di tensione, come una formidabile cupola sonora salmodiante sotto cui vibra il personaggio di Mirra) un poco noto tercet del grande e «sombre» Vigny dedicato alla Ristori e alla Mirra:

Myrrha nous a tous pris dans sa large ceinture

sanglante et dénouée. – Elle apparut ici

comme la Passion brûlant dans la Sculpture.[1]

Mentre, nella selva di giudizi ammirativi e persuasi dell’europeo Stendhal vorrei almeno ricordare la sua non casuale associazione dei nomi di Alfieri e Shakespeare[2], la sua citazione del divino Alfieri «comme contrepoison au méphitisme de bassesse qui m’entoure»[3] usato «contre l’alliance de tous les charlatans», con cui si rifaceva la bocca («Je me rinçai la bouche»[4]), la sua indignazione per alcune bestialità di uno sciocco «pédant», fra le quali appunto quella secondo cui Alfieri «n’est pas poète»[5] e – parlando dei propri progetti teatrali e della sceneggiatura – la dichiarazione che in quelli è «élève du grand Alfieri»[6] e, infine, l’appunto in cui, con vera partecipazione personale, ricorda una rappresentazione alfieriana, a Parigi nel 1811, con queste precise parole (circa l’avidità con cui gli spettatori seguivano lo svolgimento di una tragedia alfieriana): «Les spectateurs buvaient Alfieri»[7].

E come del resto comprendere i grandi scrittori europei, il loro culto dell’energia e delle passioni, la loro passione di libertà (non solo in senso politico), il loro energico pessimismo e la loro intuizione tragica della vita umana, senza l’alimento alfieriano?

Si pensi a Foscolo (come sarebbe nato l’Ortis, pur nella sua bruciante novità, e persino il finale catastrofico dei Sepolcri, senza la lezione della catastrofe alfieriana?), si pensi soprattutto a Leopardi (la grande punta avanzata della nostra letteratura e della letteratura europea moderna) che, mentre ritestimonia in un appunto dello Zibaldone il coinvolgimento degli spettatori ad una recita bolognese dell’Agamennone[8] (e dunque la necessaria rappresentazione teatrale di Alfieri), è gremito di succhi alfieriani (a cui si lega in gran parte la decisiva conversione del ’17) in tutta la sua opera, tanto che solo con la lezione alfieriana egli poté tentare l’ardua struttura lirico-drammatica del Bruto minore e dell’Ultimo canto di Saffo in cui agiscono, per Bruto Saul, e per Saffo ancora Saul (l’alba tragica dell’inizio del canto) e Mirra (vittima eroica della crudeltà dei poteri superiori, del padre-non padre Giove), mentre il fondo stesso della sua visione esistenziale, atea, pessimistico-energica, nutrita di ben altro scavo materialistico e di ben altra forza intellettuale, sarebbe però impensabile senza calcolare anche l’aggressione antica e antiprovvidenzialista dell’Alfieri, il pessimismo profondo di tante sue opere (come il dialogo La Virtú sconosciuta) e soprattutto delle sue tragedie.

Ecco: nominare Leopardi per Alfieri significa indicare in Alfieri la consistenza di una possente radice pessimistico-tragica, nuova e realizzata in grande poesia, e insieme ricca di potenzialità future, proprio in grazia della sua profonda visione tragica della vita e della condizione esistenziale umana che storicamente emerge da un potente ingorgo fra l’illuminismo nella sua forza liberatrice che investí proprio nelle sue spinte piú audaci ed “europee” Alfieri (si pensi alla Tirannide, si pensi allo stesso schema antitirannico delle tragedie) e la sua incipiente crisi nei suoi elementi piú vulgati di razionalismo fiducioso, di progressismo rettilineo, di ottimismo e provvidenzialismo deistico e teistico, di assolutismo illuminato e riformistico, di inaridimento delle forze piú complesse dell’uomo («il nostro secolo, niente poetico, e tanto ragionatore», come l’Alfieri chiamerà, all’altezza del Saul, questi aspetti dell’illuminismo[9]), a favore delle quali l’Alfieri conduce la sua battaglia “preromantica”.

Cosí, mentre l’Alfieri assimilava il sensismo illuministico fino alle soglie del materialismo, egli viveva il dramma dell’uomo, nella sua ansia di libertà e costretto nell’ambito della sua condizione sensoriale limitata («Veder, toccare, udir, gustar, sentire; / tanto, e non piú, ne diè Natura avara»[10]), e opponeva alla raison piú decurtante («i gelati Filosofisti, che da null’altro son mossi, fuorché dal due e due son quattro»[11]) il «forte sentire», l’«impulso naturale», l’esigenza di una complessità umana piú larga e tormentata e, in letteratura, la forza di una poesia antiidillica e anticatartica, profondamente tragica e catastrofica, opposta al prevalere settecentesco del cantabile melodrammatico e del “lieto fine”. Da quell’ingorgo storico, politico, culturale, letterario, e dalla profonda intuizione della limitata situazione umana, dallo scavo in quello che Parini chiamava, proprio per Alfieri, il «cupo, dove gli affetti han regno»[12], in anelli e livelli strettamente collegati (fino a quello radicale di una personale esperienza esistenziale di irrequieto sradicamento – «Misera vita strascino ed errante; / dov’io non son, quello il miglior terreno / parmi; e quel ch’io non spiro, aere sereno / sol chiamo; e il bene ognor mi caccio innante»[13] – gravata di traumi e di incubi – «Or, tra ferri e veleni, e avelli ed ombre, / la negra fantasia piena di sangue / le vie tutte di morte hammi disgombre»[14] – lucidamente vista come sventura – «A’ 17 Gennajo nacqui per mia disgrazia»[15]) trae origine la tragica visione alfieriana della vita umana, costretta in limiti sensoriali, esistenziali e politici, tormentata da istinti distruttori, dominata dal limite supremo di poteri superiori, ostili e neroniani (ciò che Leopardi chiamerà poi lucidamente «il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera»[16], per giungere, alla fine, a un assoluto ateismo) che il grande tragico meglio intuirà nella zona suprema della sua tragedia (fra Saul e Mirra) come (proprio per la Mirra, punta estrema di tale visione cosmica tragica) ben avvertirà un acutissimo avversario dell’Alfieri, il gesuita Arteaga, scrivendo: «La rappresentazione [...] d’un amore contro natura [...] la virtú quasi ridotta a soccombere sotto il peso d’un tanto delitto; la Divinità che non sol permette, ma sforza un cuore innocente a concepire una fiamma sí rea [...] sono tutte immagini dalle quali, atteso l’attuale nostro sistema di morale e di religione, non veggo assolutamente quai vantaggi abbiano a ritrarsi per l’innocenza, e molto meno per la pietà. Veggo bensí, e il veggo pur troppo, che in uno spirito riflessivo e coerente le conseguenze immediate che tali dipinture fanno nascere non sono, né possono essere altre che il dispetto contro la Provvidenza, l’aborrimento dell’umana condizione, e la sconsolante indolenza che vien prodotta dal fatalismo»[17]. Coerente diagnosi del fondo tragico alfieriano, tranne la conclusione errata circa l’“indolenza fatalistica”.

Ché se la catastrofe e lo scacco pratico sono la mèta stessa della visione tragica e teatrale alfieriana, proprio in quella catastrofe (che nel Saul coinvolge il tiranno-vittima insieme uniti nel grande e ben suo personaggio e proiezione suprema dell’animo alfieriano, come sono, a loro modo, i personaggi delle tragedie alfieriane), in quella specie di ideale Termopili (la battaglia da lui piú vagheggiata), l’Alfieri celebra la sua tragica vittoria, sviluppandovi il senso piú profondo del suo eroico agonismo, della sua lotta disperata, siglata non dalla abbietta rassegnazione, ma dalla protesta ribelle («Sei paga, / d’inesorabil Dio terribil ira?»[18]) contro i tiranni mondani e celesti e dalla dignità, verificata («Uom se’ tu grande o vil? Muori, e il saprai»[19]) nel supremo paragone della morte: essa stessa non accettata passivamente ma agonisticamente vissuta in un estremo ergersi delle piú intime forze dell’uomo, che insieme contraddicono ogni visione rassicurante e sdrammatizzante della morte con prospettive ultraterrene, che son del tutto fuori della concezione alfieriana («da buon cattolico, cioè da vile»[20], come dice precorrendo la leopardiana impennata di Amore e Morte circa il non benedir «la man che flagellando si colora / nel mio sangue innocente», «com’usa / per antica viltà l’umana gente»; vv. 112-113 e 115-116).

Cosí il grande poeta del «purtroppo» (la parola sintomatica della sua suprema scontentezza e constatazione del divario fra l’aspirazione alla «libertà» nel suo senso piú compendioso e la realtà mondana ed umana) non poteva (malgrado la molteplicità delle sue direzioni scrittorie, tutte però, a ben vedere, collegate alla radice tragica e collaboranti con la centrale poetica tragica) non esprimersi nella tragedia e nel teatro tragico: tutt’altro che una scelta di un genere passivamente accettato dal gusto del secolo che di fatto lo contraddiceva (si pensi alle mediocri tragedie di Voltaire, alla congenialità del “lieto fine” e dell’idillio), tutt’altro che l’errore classicistico di un lirico che, per forza volontaristica, si fa drammaturgo.

Tutto in Alfieri concorre alla soluzione tragico-teatrale e la prepara e accompagna nella sua necessaria poetica di recitazione e di rappresentazione, in cui egli predispone il linguaggio stesso alla dizione e non alla lettura. Sí che anche il critico letterario deve leggere le tragedie alfieriane idealmente rappresentandole, avvertendone la realizzazione gestuale e recitata, la scansione del tempo e la misura dello spazio, lo stesso sfondo scenografico che (si noti bene) Alfieri preferiva estremamente nudo e neutro senza «mezzucci» – come li chiamava – di decorazione fuorviante alla scena interna all’azione e al linguaggio (insomma l’amato saloncino disadorno di Siena o i salotti romani o la sua casa a Firenze). E cosí il regista teatrale deve, a mio avviso, ridurre al minimo impropri soccorsi sontuosi e concentrare gli stessi mezzi scenici sull’atmosfera essenziale affocata e soffocante delle passioni e del loro sviluppo in parole dette (e non lette) con il massimo della espressività-impressività semantica (la cui compressione classicistica ha lo scopo di far esplodere tanto piú la loro attiva forza dirompente), rifuggendo dalla aborrita melodia, dal cantabile («dire adagio – cioè con intelligenza – cose che meritino di essere ascoltate», avverte Alfieri regista di se stesso) e dal secco discorsivo voltairiano coerente alla diluita azione, con cui Alfieri aveva fatto un braccio di ferro con la Merope, all’epoca del Saul, sotto la piú facile scommessa con la Merope del Maffei.

Proprio da una rappresentazione teatrale, criticamente provveduta, può tanto meglio svilupparsi il messaggio (non la tesi astratta in personaggi-prestanome, «congestione di un sangue non ingenito e proprio», come erroneamente diceva il De Sanctis per i personaggi di Alfieri[21]), l’inquietudine orientata, di cui mai un grande scrittore realmente manca, e che dalle tragedie alfieriane perviene all’ascoltatore non disattento e vivo fra testo e realtà attuale. Un messaggio perenne di visione tragica della realtà e condizione umana, di doverosa dignità e libertà, ma insieme di impegno per tali non falsi valori (disconosciuti da quello che l’Alfieri chiamava «quest’empio, traditor, mendace / mondo, che i vizj apertamente onora»[22]), usufruibile, anzi necessario anche per chi, come me (lontano dalla situazione storica e politica di Alfieri, dalle sue tarde istanze antipopolari – ma, si ricordi, «infami al par dei vincitori i vinti»[23] egli dirà dopo la pace di Campoformio, non aggregandosi mai, neppure di fronte alla rinnegata Rivoluzione francese, alla “corte” dei reazionari), partecipa tuttora, malgrado ogni delusione e pur senza ottimismo e trionfalismo, alla sfida suprema di una società di “liberi e di eguali”, ma ben sapendo (e qui cade l’accento alfieriano) che se (come già dice una frase leopardiana dello Zibaldone) «la perfetta uguaglianza è la base necessaria della libertà»[24], nessuna uguaglianza è valida se non è formata da individui profondamente liberi, responsabili, consapevoli, mai disposti ad un consenso coartato od indotto, sempre invece doverosamente disposti a porre nuovi problemi e a sollecitare la creatività degli altri individui concreti, ben sapendo – per finire con versi del Saul – che il potere (il trono o qualsiasi forma di potere mondano o anche quello soprannaturale, promotore di riproduzioni tiranniche terrene) è corruttore della libertà:

O ria di regno insazïabil sete,

che non fai tu? Per aver regno, uccide

il fratello il fratel; la madre i figli;

la consorte il marito; il figlio il padre...

Seggio è di sangue, e d’empietade, il trono.

(At. IV, sc. 3, vv. 95-99).

Messaggio, per altro, interamente realizzato in poesia; se per poesia non si intende un canto “disacerbante”, rasserenante, rassicurante (con cui si tenta di esorcizzarne la forza moltiplicatrice ed attiva e di piegarla a lenimento delle proprie profonde ferite storiche ed esistenziali), ma quella che Alfieri chiama «figlia» e «madre» di libertà e «del forte sentir piú forte figlia»[25], e cioè (per unire ancora una volta Alfieri e Leopardi) capace di quell’effetto poetico che – come dice appunto Leopardi – «non [deve] lasciar l’animo nostro in riposo e in calma», ma provocare «una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni»[26]: la vera grande poesia provoca dunque un’inquietudine orientata e sommuove gli strati piú profondi del nostro essere umano: cosí certamente, e nei suoi modi particolarmente teatrali, fa la grande poesia tragica alfieriana.


1 A. De Vigny, Oeuvres complètes, texte présenté et commenté par F. Baldensperger, 2 voll., Paris, Gallimard, 1948, I, p. 257.

2 Cfr. Stendhal, Journal, in Oeuvres intimes, texte établi et annoté par H. Martineau, Paris, Gallimard, 1955.

3 Ivi, p. 518.

4 Ivi, p. 563.

5 Ivi, p. 1259.

6 Ivi, p. 537.

7 Ivi, p. 1175. Corsivo mio.

8 Cfr. Tutte le opere cit., II, p. 863.

9 Parere sulle tragedie e altre prose critiche cit., p. 121.

10 Sonetto 17, vv. 9-10; Rime cit., p. 15.

11 Epistolario cit., p. 198.

12 Son. LII, A Vittorio Alfieri, v. 5; in Parini, Poesie cit., p. 267.

13 Son. 108, vv. 5-8; Rime cit., p. 95.

14 Son. 172, vv. 9-11; ivi, p. 145.

15 Prospetto cronologico della «Vita»; in Vita cit., II, p. 275.

16 A se stesso, vv. 14-5; in Tutte le opere cit., I, p. 34.

17 Lettera alla Signora Isabella Teotochi-Albrizzi cit., (la cit. dalle pp. 12-13 della Lettera).

18 Saul cit., p. 128 (At. V, sc. 5, vv. 218-219). Corsivi miei.

19 Son. 168, v. 14; Rime cit., pp. 141-142.

20 Giornali, Sabato, li 26 Aprile 1777; in V. Alfieri, Vita cit., II, p. 245 (cfr. anche V. Alfieri, Giornali e lettere scelte, a cura di W. Binni, Torino, Einaudi, 1949).

21 Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, con introduzione di N. Sapegno, 2 voll., Torino, Einaudi, 1958, II, p. 922.

22 Son. 61, vv. 3-4; Rime cit., p. 56.

23 Il Misogallo, son. XLII, v. 14; in V. Alfieri, Scritti politici e morali cit., III, p. 408.

24 Tutte le opere cit., II, p. 187.

25 Son. 281, v. 9; Rime cit., p. 229.

26 Tutte le opere cit., II, p. 786.